Che vi devo dire, qui siamo col cuore nello zucchero ininterrottamente da 48 ore. Vincere lo scudetto non è stato bello: è stato oltre. Oltre la gioia, oltre la festa, oltre il senso del tempo. E non è solo una questione di sport, ovviamente.
Il treno per tornare a casa l’ho preso al volo per miracolo la mattina della partita. Era pieno di ragazzi come me, gente che stava tornando a casa, sembrava di stare andando a Mirabilandia. Un’energia fortissima difficile da spiegare: adrenalina e tenerezza insieme. Dentro ognuno di noi la (quasi) certezza di andare incontro a un weekend pieno d’amore. Il treno da Milano più bello che io abbia mai preso.
O noi o l’inter. Non la nostra storica rivale -come la Juve- ma sempre quella squadra un po’ borghese milanese, a cui sembriamo sempre un po’ di troppo, un po’ folkloristici, un po’ “pittoreschi”, sempre esagerati. La squadra per cui, tra l’altro, tifa mezzo mio ufficio, quindi per me è stato ancora più bello :D. Per i miei colleghi infatti sarà un incubo avermi attorno nei prossimi giorni e li capisco. Ma amen, ognuno ha le croci.
Avanti scugnizzi
Pochi minuti prima del fischio d’inizio, la Curva B ha srotolato uno striscione che sembrava un quadro.
“Avanti scugnizzi. Insieme abbiamo dipinto quest’annata, adesso manca solo la firma e l’opera d’arte è completata.”
Sotto la scritta, un’immagine enorme: uno scugnizzo napoletano che, sorridendo, strappa lo scudetto dal petto di un bambino interista. LACRIME.
Quel bambino però, non è un bambino qualsiasi. Quel bambino è Gennarino Capuozzo.
Con l’Armistizio di Cassabile del 2 Settembre 1943 l’Italia firma la resa incondizionata agli Alleati. Quell’atto sancisce ufficialmente l’inizio della campagna d’Italia e della Resistenza nella guerra di liberazione italiana contro il nazifascismo, e Napoli, è la prima città d’Europa a essersi liberata da sola dai nazifascisti.
Tutto, in quattro giorni: 27, 28, 29 e 30 settembre 1943.
Le famose Quattro Giornate di Napoli, i cui protagonisti sono stati gli scugnizzi.
Gli scugnizzi non sono stati semplicemente dei “monelli”. Erano bambini senza infanzia, figli di sfollati, orfani cresciuti tra le macerie dei bombardamenti e la fame. Tutti uguali, tutti ugualmente poveri. E Gennarino era proprio uno di loro.
Gennaro Capuozzo, dodici anni - il più giovane degli insorti napoletani
Tutto partì a quanto pare da un episodio che scosse la città: i nazisti presero centinaia di napoletani e li schierarono davanti della sede dell'Università per guardare la fucilazione di un marinaio (rimasto ignoto) autore di un episodio di resistenza.
Poche ore dopo, ne costrinsero altri 500 ad assistere all’assassinio di 14 carabinieri che avevano resistito agli occupanti.
Il 28 settembre del 1943, Gennarino, in questo clima tesissimo, uscì di casa per andare al lavoro ma fuori vide i corpi di una donna, un uomo e un bambino stesi a terra. Poco più in là, una camionetta tedesca che si allontanava. Vide anche un gruppo di ragazzi più grandi: scappati dal carcere minorile e che avevano deciso di combattere. Lui li guardò, tornò a casa, prese una borraccia, diede un bacio a sua madre e le disse:
“Mammà, nun mi aspettà. Tornerò quann Napl sarà libera.”
E sparì nei vicoli.
Cominciò a portare munizioni, poi prese un fucile anche lui. A Mugnano assaltò un camion tedesco, riuscì a farlo fermare, lanciò una bomba e fece scendere i soldati con le mani in alto.
Il giorno dopo era in via Santa Teresa degli Scalzi, a pochi metri da casa mia, dove salì sul terrazzo dell’Istituto delle Maestre Pie Filippini e cominciò a lanciare bombe a mano contro i carri armati. Per questo suo atto di coraggio gli fu attribuita la medaglia d’oro al valor militare alla memoria.
Un attimo dopo, una granata nemica lo colpì in pieno e fu trovato morto ancora con la bomba stretta in mano. Morì così, a dodici anni. Ciò che mi colpisce in tutte le lotte di liberazione è che chi le combatte e perde la vita non saprà mai se il suo sforzo sarà valso a qualcosa, ma combatte lo stesso.
Il giorno dopo, i tedeschi stremati, si arresero. Napoli era libera. Alcuni dicono che accadde tutto così velocemente per via del fatto che fin dal principio il popolo napoletano aveva accolto con reticenza l’ideologia fascista e ancor più quella nazista. C’è un aneddoto divertente sulla visita di Hitler a Napoli nel 1938: il Führer, camminando per via Caracciolo con il braccio teso, fu ‘canzonato’ da un napoletano: «Sta verenn’ si for’ chiove!» (sta vedendo se fuori piove).
Chissà se è vero ma mi piace pensare che sia veramente successo :)
Di Gennarino oggi resta troppo poco: il nome di una scuola, un monumento in una piazza e qualche riga nei libri di storia. E una coreografia, una bellissima coreografia.
Quando i tifosi hanno scelto Gennarino per rappresentare questa stagione, hanno fatto molto più di una scelta estetica. Ha fatto memoria.
Ha ricordato a tutti che Napoli si vince solo così: con l’incoscienza degli scugnizzi, la fame, la tenacia, il coraggio, la fantasia, l’amore viscerale per questa città.
Per questo, quel bambino che sorride e strappa lo scudetto a un altro bambino, non è un insulto, non è arroganza, ma una mano tesa. È la storia che passa tra le generazioni e dice: guarda che tu sei figlio di una città che non si è mai arresa.
E allora, forse, da quella coreografia e da questo scudetto anche chi governa potrebbe imparare qualcosa. Perché Napoli, con tutta la sua infinita complessità, è ancora capace di raccontarsi al mondo in maniera spontanea e autentica. È una città che non ha mai smesso di cercare e preservare se stessa.
Il calcio, oggi, è diventato uno dei pochi spazi in cui molti si sentono rappresentati, in cui ci si riconosce, perché tutto il resto – istituzioni, servizi, politica – sembra aver mollato la presa ultimamente. Ma questa passione non può restare isolata. È un campanello d’allarme positivo, un segnale che grida: Napoli può essere una città straordinaria, se solo qualcuno trovasse il coraggio di ascoltarla davvero. Oggi a tenerla unita è quasi principalmente il calcio. Ma domani potrebbe – e dovrebbe – essere anche la politica, la cultura, la scuola.
E che bella che sei oggi amore mio
L
Mi hai fatto piangere!
Bellissima storia,tra l'altro non lo dice nessuno ma grazie al calcio nei quartieri spagnoli (Via de Deo docet)è partito il primo processo di trasformazione urbana completamente autogestito.Li dove c'erano piazze di spaccio e degrado adesso turisti e tante micro imprese.Un abbraccio e forza Napoli